Chi ammazza l’Amazzonia? Srotoliamo il filo che ci unisce alla foresta

di Giulia Bassetto e Giacomo Oxoli

Cleared land in the Amazon Jungle, Brazil
Cleared land in the Amazon Jungle, Brazil © Riccardo Pravettoni CC BY-NC-SA 2.0

Alberi abbattuti. Fiamme che divampano. Cenere trasportata dal vento. Biodiversità in fumo. Persone e animali che perdono la casa. Il cielo di San Paolo grigio per giorni. Eventi a cui ci stiamo abituando che risalgono tutti a un fattore: lo sfruttamento umano dell’Amazzonia. Una fetta importante di biodiversità dell’intero Pianeta sta venendo consumata dalle logiche miopi di profitto che vede l’essere umano al centro, una fetta importante che viene difesa dagli indigeni locali e che, inconsapevolmente o consapevolmente, arriva sulle nostre tavole. Cercheremo di srotolare quel filo che lega la Foresta Amazzonica alle nostre diete e all’importanza di leggere le etichette e di informarsi. Nel farlo, troveremo tanti nodi che riguardano le attuali politiche ambientali brasiliane, i trattati commerciali dell’Unione Europea come il Mercosur, il land grabbing. Srotolare il filo ci aiuta a venirne a capo, a prendere in mano l’inizio e la fine e a ripensare a un modello che vede al suo centro una reale sostenibilità a tre dimensioni e rimanda alcune riflessioni anche sui nostri stili di vita e sugli accordi internazionali che stipuliamo.  

Il polmone verde in fumo

Dove siamo? In Brasile, all’interno di quello che sta diventando il ricordo del polmone verde mondiale: la Foresta Amazzonica. In realtà, potremmo assistere a questo irrazionale spettacolo da qualunque punto della foresta pluviale mondiale in quanto, come confermano i dati dell’Università del Maryland diffusi su Global Forest Watch (esplora la mappa interattiva), nel 2019 ogni 6 secondi il mondo ha perso l’equivalente di un intero campo da calcio di foresta pluviale primaria (Weisse e Dow Goldman).

Il 2019 è ricordato come un anno particolarmente drammatico per l’ambiente, come confermano i rilevamenti di incendi attivi da maggio ad agosto, stagione con il più alto numero di incendi dal 2012 (GFED, 2019). Lo testimoniano anche le immagini twittate dall’organizzazione mondiale di meteorologia (WMO), che mostrano come il fumo degli incendi provenienti dall’Amazzonia stesse raggiungendo la costa atlantica di San Paolo.

Una delle tante conseguenze di questi devastanti incendi riguarda la significativa perdita di biodiversità. Quest’ultima è un po’ come l’interazione tra la sfera ambientale, economica e sociale di cui vi stiamo parlando: è complessa, ma fondamentale per la nostra sopravvivenza. In termini scientifici la biodiversità è l’insieme di relazioni tra i diversi organismi che creano un equilibrio tale per cui vengono garantiti cibo, acqua e risorse (inclusi ripari sicuri) ad animali e persone (FAO, 2019). Preservarla è fondamentale per diverse ragioni: in primis, alterare questo delicato equilibrio può voler dire  compromettere il legame tra natura e i focolai di malattie, vista la correlazione piuttosto evidente fra distruzione degli ecosistemi e nascita dei virus, specialmente in questo periodo storico (Shaw, 2018). In secondo luogo perché abbattere le foreste tropicali significa diminuire la capacità di assorbire anidride carbonica aumentando le emissioni in atmosfera e quindi il riscaldamento globale. Il coro di voci di ambientalisti/e e scienziati/e di tutto il mondo sta diventando sempre più forte poiché, come denunciano sulla rivista Environmental, se l’odierno tasso di allungamento della stagione secca continuasse all’attuale ritmo, contemporaneamente agli incendi e alla deforestazione, la foresta non avrà abbastanza tempo per riprendersi e far rigenerare la sua chioma. Secondo gli studi, questo significa che nel 2064 l’attuale paesaggio boschivo, denudato dal fuoco, sarà permanentemente invaso da erbe e arbusti (Walker, 2020).

Il peso dell’economia

Il collasso generale della governance ambientale è particolarmente evidente in Brasile, dove innegabilmente una delle tre dimensioni della sostenibilità, quella economica (di cui vi abbiamo parlato precedentemente), pesa in maniera preponderante sul piatto della bilancia. Questo appare evidente considerando che, in quasi 50 anni, il Brasile ha perso il 18,9% della sua foresta originaria – pari a quasi il doppio del territorio della Germania (RAISG, 2020) – e nelle ultime tre  decadi gli ettari di vegetazione nativa andati persi corrispondono al 10% del territorio nazionale (IPAM, 2020). Questo sta causando ciclopici squilibri ambientali e sociali.

Laddove un tempo germogliava la foresta vergine, ora l’espansione agricola di monoculture e di terreni destinati all’allevamento continua ad essere il principale motore della deforestazione, come conferma la FAO. Legname. Allevamento. Agricoltura, specialmente intensiva e con alti contenuti di OGM (organismo geneticamente modificato). Queste sono le principali attività antropiche che stiamo portando avanti nell’intera area, attività che vanno oltre la sussistenza per le popolazioni locali e che coinvolgono l’intero mercato globale. L’ISAAA (International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications) conferma che nel 2017 il 94% dei 52,6 milioni di ettari di superficie totalmente coltivata con soia e mais erano organismi geneticamente modificati tramite le biotecnologie.

Per chiarire meglio come tutto ciò ci tocchi direttamente, parliamo con Paulo Lima, giornalista, educomunicatore e uno dei direttori esecutivi dell’associazione Viração&Jangada. Durante la nostra intervista, Paulo Lima conferma un altro elemento che è frequentemente evidenziato: lo spazio bruciato viene spesso destinato a coltivazioni intensive di soia OGM, che viene a sua volta esportata in Europa per nutrire gli allevamenti suini, bovini e di pollame (Legambiente, n.d.). Il sistema economico dell’Amazzonia è l’esempio della globalizzazione e delle dinamiche insostenibili di un modello economico globale: si radono al suolo interi ettari di foresta, si coltiva in maniera intensiva e con l’utilizzo di trattamenti chimici, la merce viene esportata per alimentare un’altra filiera agroalimentare, si nutrono gli animali con mangimi provenienti dall’altra parte del mondo e, dopo qualche mese, il piatto è servito. Quante navi cargo? Quanto inquinamento ed emissione di CO2? E per cosa? Per il risparmio centesimale di una filiera produttiva? 

In un mondo così complicato è difficile fare luce sulle responsabilità. Lasciamo questo tipo di conclusioni al lettore o alla lettrice; noi continuiamo a srotolare il filo e ci troviamo davanti a un nodo: la questione del land grabbing e degli interessi di grosse multinazionali che favoriscono questo modello insostenibile. Un modello economico che vede nell’Amazzonia un fortino di risorse da cui estrarre grossi investimenti su larga scala ignorando completamente il patrimonio ambientale e sorpassando di gran lunga il rapporto armonioso fra esseri umani e natura. 

E le politiche ambientali brasiliane?

La questione del land grabbing (accaparramento di terre) ci aiuta a comprendere perché il tema della sostenibilità del territorio brasiliano è strettamente collegato al contesto socio politico in cui è immerso. Se vi state chiedendo cosa intendiamo per land grabbing, ci riferiamo al sequestro illegittimo di terreni che una o più persone, aziende o governi mettono in atto al fine di controllare le risorse della zona (Oxfam, 2017). L’IPAM, Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia, ha denunciato il crescente tasso di area illegalmente registrata come proprietà rurale privata all’interno delle terre indigene che in Amazzonia è aumentata del 55% tra il 2016 e il 2020.

Le implicazioni di tali comportamenti chiaramente ricadono sulla fascia di popolazione più debole. A tal proposito abbiamo intervistato Claudia Fanti, giornalista e membro del Movimento dei lavoratori rurali Senza Terra (MST) che è presente in Italia e internazionalmente. Claudia, da Roma, ci ha raccontato come questa situazione è anche il risultato della combinazione tra narrativa politica ed azioni che mirano a favorire un segmento della popolazione, ossia di coloro che spalleggiano il governo Bolsonaro. Il 2019, oltre ad essere stato un anno particolarmente drammatico per l’ambiente in Brasile, come dimostrato precedentemente dalla mappa degli incendi, è l’anno che casualmente o “causalmente” coincide con l’inizio del governo di colui che è stato definito come l’alfiere internazionale del negazionismo ambientale1: Jair Bolsonaro. Claudia, infatti, racconta come le agenzie ambientali come l’IBAMA (Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali) siano state smantellate o indebolite fortemente in termini di risorse e di tagli di bilancio. Così facendo, il governo Bolsonaro favorisce i poteri forti dello Stato quali i latifondisti e il settore dell’agribusiness, che mira ad accaparrarsi le risorse naturali del paese.

Questo processo avviene parallelamente al discorso politico che Bolsonaro sta attuando sin dalla campagna elettorale, abdicando al suo dovere di denunciare l’illegalità degli incendi, responsabili dell’80% della deforestazione illegale (WWF, 2019), favorendo l’avanzamento del latifondo e la privatizzazione del suolo, anche falsificando dei titoli di terreni di proprietà pubblica. Claudia Fanti conferma che è dal 1988 che la demarcazione dei confini delle aree indigene dovrebbe avvenire; non essendo ancora stata fatta, le attività e la ‘legittimazione’ del land-grabbing continuano. Il filo cuce insieme anche il tema della violazione dei diritti umani, la sottrazione di interi appezzamenti di terreno delle popolazioni indigene e delle migliaia di contadini/e che ci vivono, togliendo loro ogni possibilità di opporsi; persone che per quella stessa terra a volte ci rimettono la vita a costo di difenderla. Nel 2019, la regione amazzonica conta 33 morti fra attiviste e attivisti ambientali (Global Witness, 2020).

Una responsabilità condivisa

Sia Paulo che Claudia ci ricordano che in tutto questo l’Europa e l’Italia hanno delle grandi responsabilità. Arriviamo alla fine del filo riflettendo sulle nostre azioni, sia quelle dei singoli sia quelle collettive e istituzionali. L’Europa rappresenta una delle ultime destinazioni di ciò che viene coltivato e allevato in Amazzonia. Come sottolineato prima, la maggior parte della soia coltivata viene utilizzata per nutrire gli animali di cui noi ci cibiamo, ma non solo, come evidenzia l’accordo commerciale raggiunto nell’estate del 2019 tra Unione Europea e Paesi latino-americani.

Giacomo Oxoli, Maggio 2021

Nonostante l’impegno dichiarato dalla Commissione Europea nel portare avanti la transizione ecologica, la riduzione delle emissioni e la salvaguardia la tutela dei diritti umani, ad oggi sono ancora in corso le trattative per l’accordo UE-Mercosur, definito dalla stessa Commissione Europea come “ambizioso, equilibrato e globale”. Tra gli obiettivi dell’accordo dichiarati dall’UE c’è la volontà di aumentare il commercio e gli investimenti bilaterali, di incoraggiare le aziende ad agire in modo responsabile, di promuovere valori comuni ed infine di combattere il cambiamento climatico. Aumenti del commercio e dei consumi, quegli stessi consumi che stanno portando, ultimamente in maniera sempre più evidente, alla devastazione dell’Amazzonia. La continua richiesta di carne per il mercato europeo fa sì che le importazioni aumentino in maniera considerevole, e il trattato UE-Mercosur rappresenta perfettamente l’andamento degli scambi fra i Paesi dell’America Latina e gli Stati membri dell’UE.

Il problema della deforestazione sta anche nel favorire l’allargamento per nuovi pascoli per la produzione di carne. Il Brasile ne è uno dei primi produttori al mondo, con circa 10 milioni di tonnellate di carne all’anno. Di queste, circa 12000 sono dirette in Europa, prevalentemente in Gran Bretagna e in Italia. È proprio qui che il Bel Paese ha le sue responsabilità, perché importa da solo 27000 tonnellate, soprattutto per la produzione della famosa Bresaola (Legambiente, n.d.). Gli attuali standard produttivi della Bresaola non corrispondono all’effettiva possibilità di pascolo nel nostro territorio e portano le aziende a importare carne di zebù del Sudamerica, l’animale più diffuso nei pascoli del Brasile.2

È qua che il filo  unisce le due storie: la nostra come consumatori europei e quella degli indigeni, coloro che in Amazzonia convivono con la natura circostante ma sono costretti a difenderla. Un filo che in mezzo racchiude tante storie, tanti abusi e casi di corruzione, tanti volti, tanto sangue e il predominio dell’essere umano sulla natura e sulle stesse popolazioni locali. È possibile venirne a capo? È possibile interrompere un filo che più viene srotolato e più diventa drammatico?

Giacomo Oxoli, Maggio 2021

Non stiamo parlando solo di un territorio che, a mano mano che scriviamo l’articolo, viene privato della sua biodiversità, ma seguendo il filo ci accorgiamo che la questione ambientale, politica, sociale ed economica sono strettamente interconnesse.

Una situazione che vede l’Amazzonia come uno dei campanelli d’allarme per la salvaguardia ambientale e per la tutela degli ecosistemi, che sta mobilitando l’attenzione della comunità scientifica, politica e della società civile internazionale. Attenzione che si concretizza con azioni e risposte per evitare altra distruzione e mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. Quindi, partendo dall’accordo commerciale UE-Mercosur, troviamo coloro che si oppongono al trattato e, come ricorda l’ISPI, lo fanno partendo proprio da quelle motivazioni che l’UE dice di avere a cuore. In primis, quelle legate alla sfera sociale, sia in termini di concorrenza di prodotti più economici che in termini di livello occupazionale. Poi ci sono le motivazioni legate alla sicurezza alimentare e al rischio di indebolimento sugli alti standard di sicurezza alimentare europei (considerando anche il caso di alcuni anni fa della ‘carne fraca’3). Poi quelle legate all’impatto ambientale, in quanto questo accordo potrebbe essere un incentivo per alcuni governi ad aumentare i volumi delle produzioni intensive ed estensive e quindi la deforestazione. Infine la motivazione, forse non sufficientemente forte, della tutela dei diritti umani, soprattutto della popolazione indigena.

Claudia ci conferma che l’Italia, a differenza di Austria, Francia, Polonia, Belgio e Irlanda, che hanno dichiarato le loro perplessità e opposizioni, pare essere favorevole all’accordo (Wax e Nelsen, 2019).

In occasione della Giornata Mondiale della Terra del 2021, durante il summit sul clima organizzato dagli Stati Uniti, lo stesso Bolsonaro ha annunciato di voler mettere fine alla deforestazione illegale entro il 2030 (Loguercio, 2021). Un obiettivo che si allontana da una realtà dove i costanti tagli di iniziative per la protezione ambientale e la denigrazione, da parte del governo brasiliano, delle ONG che lavorano nel Paese sui temi ambientali portano a credere che l’intervento di Bolsonaro sia finalizzato a una propaganda politica piuttosto che ad azioni mirate per risolvere il problema. I prossimi summit sul clima, fra cui la COP26 a Glasgow, saranno fondamentali per orientare le politiche di tutti gli Stati verso azioni che vadano in una direzione veramente green. Il Next Generation EU e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sono  strumenti fondamentali per costruire una transizione ecologica. Se guardiamo al fenomeno del commercio globale dell’Amazzonia ci chiediamo se veramente questo allarme viene preso in considerazione dalle nostre politiche e dai trattati commerciali che stipuliamo. Il rischio è continuare a sostenere un mercato globale senza renderci conto che la soia e la carne proveniente dal Brasile non possono essere sostenibili, e ignorando un reale sviluppo locale. Quindi, dobbiamo veramente importare così tanta carne pur sapendo che dietro si nasconde la deforestazione dell’Amazzonia, la repressione dei popoli indigeni e una produzione industriale dislocata?

Non è solo la politica a dover spingere verso finanziamenti green: è necessario lo sforzo di tutte le energie in campo, comprese le nostre. Come sottolineano Claudia e Paulo, se veramente vogliamo lasciare un pianeta ancora vivibile per le generazioni a venire è fondamentale  guardare a tutta la filiera alimentare, ponendo(ci) domande, informandoci e leggendo le etichette di ciò che compriamo. Ciò probabilmente comporta cambiare alcune abitudini alimentari che, anche se ci costa fatica, saranno la chiave per garantire una vita sana e dignitosa a coloro che verranno dopo di noi. Unire le forze potrebbe fare pressioni sulla politica, come sta facendo la campagna #StopEUMercosur, che ha riunito più di 450 organizzazioni in tutto il mondo, tra cui STOP TTIP Italia, per lanciare un messaggio chiaro: “i governi devono cancellare il trattato UE-Mercosur e difendere la vita e l’ambiente, avviare una cooperazione basata su criteri di solidarietà e non sulla deforestazione e il commercio di prodotti che impattano sull’Amazzonia, sul clima e sui diritti umani”.

Non è forse meglio pensare che questa sia una potenziale strada da percorrere? Forse sì. Sicuramente dovremmo rivedere il nostro modello economico e riflettere su quanta strada deve fare il nostro cibo prima che arrivi sulle nostre tavole e quanta devastazione si porta dietro. Non sarebbe meglio far respirare l’Amazzonia e non soffocarla con le nostre mani?


1 Video Presa Diretta. Min 5:50 https://www.raiplay.it/video/2021/02/Presa-diretta—Guerra-allAmazzonia-3b0dbb31-6a35-4524-bb95-36a39e13c48d.html 

2 Per saperne di più, visita il sito della Bresaola della Valtellina 

3 Uso massiccio di pesticidi e di ormoni della crescita in Argentina e Uruguay https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/E-8-2017-002406_EN.html?redirect

Bibliografia

Mappa interattiva, Global Forest Watch – Brazil

Weisse e Dow Goldman, We Lost a Football Pitch of Primary Rainforest Every 6 Seconds in 2019. World Resource Institute.

Presa Diretta, Guerra all’Amazzonia

GFED, 2019. Fire Forecast Amazon Region

World Meteorological Organization, 2019  Twitter thread.

FAO. 2019. The State of the World’s Biodiversity for Food and Agriculture, J. Bélanger & D. Pilling (eds.). FAO Commission on Genetic Resources for Food and Agriculture Assessments. Rome. 572 pp.

Shaw, 2018. Why is biodiversity Important? Conservation International.

Environmental. 2020. Walker, R.T., Collision Course: Development Pushes Amazonia Toward Its Tipping Point.

RAISG, 2020. Amazonia Under Pressure, 68 pgs.. Amazonian Network of Georeferenced Socio-enviromental Information. (www.amazoniasocioambiental.org)

ISAAA. 2017. Global Status of Commercialized Biotech/GM Crops in 2017: Biotech Crop Adoption Surges as Economic Benefits Accumate in 22 Years. ISAAA Brief No. 53. ISAAA: Ithaca, New York.

IPAM, 2020. Brasil perdeu 10% do território em vegetação nativa entre 1985 e 2019

FAO, 2020. The state of the WOrld’s Forests 2020

Viração & Jangada, chi siamo.

Legambiente, n.d. SOCIETÀ JBS

Oxfam, 2017. Cos’è il land grabbing: uno scandalo in continua crescita

IPAM, 2021. Land-grabbing and illegal mining bring wildfires and deforestation to Indigenous lands in the Amazon

Movimento dei lavoratori rurali Senza Terra (MST)

IBAMA, Ministério do Meio Ambiente

WWF, 2019. Il 2019 è stato un anno di fuoco per le foreste nel mondo.

Mercosur. Unione europea e Mercosur: raggiunto accordo sul commercio

ISPI, 2021. Latino, A. UE-Mercosur: Accordo di scambio non ancora libero

EU Parliament, 2017, Parliamentary questions – Operation Carne Fraca

Wax and Nelsen, 2019. Politico. Macron, 3 other leaders warn Mercosur deal could ‘destabilize’ farm sector

Loguercio, L. 2021. Life Gate. Earth day 2021, gli impegni presi al summit organizzato dagli Stati Uniti

Global Witness, 2020. Defending Tomorrow.

Consorzio di Tutela della Bresaola della Valtellina. Only top-quality, safe and controlled meat, chosen all around the world as an excellence product.

Campagna Stop TTIP. Stop EU-Mercosur

PNRR. Trasmissione del PNRR al Parlamento. 25 Aprile 2021

Il Mozambico nella morsa della “maledizione delle risorse”

di Marianna Malpaga

© Gianpaolo Galileo Rama del Consorzio Associazioni con il Mozambico

Abbiamo scelto di parlare del conflitto di Cabo Delgado perché, oltre ad essere un tema di stringente attualità, ci consente di presentare alcuni concetti chiave che emergeranno nella prima fase della campagna di sensibilizzazione Vivila in 3D, dedicata alla “lettura delle etichette”. Possiamo leggere le etichette dei prodotti quando compriamo qualcosa al supermercato, ma possiamo anche iniziare a “leggere le etichette” in senso lato, domandandoci ad esempio da dove viene ciò che consumiamo quotidianamente (o che potremmo consumare in futuro).

A Cabo Delgado, infatti, c’è il gas naturale e ci sono delle multinazionali che lo estraggono. Questa, come ci ha spiegato il professore dell’Università di Trento Corrado Diamantini, non è l’unica causa del conflitto, ma è certamente un elemento che acuisce l’insoddisfazione della popolazione locale, e che di conseguenza alimenta la guerra. 

Oltre al conflitto di Cabo Delgado, è l’intero stato dell’arte delle politiche di sviluppo in Mozambico che ci consente di affrontare concetti chiave per la cooperazione internazionale, lo sviluppo e la sostenibilità: il land grabbing e la maledizione delle risorse. 

Cabo Delgado, “l’eldorado del gas” al centro del conflitto 

A inizio marzo, Amnesty International pubblicava un report con un titolo piuttosto eloquente: What I saw is death, “Quello che ho visto è la morte”. Il documento si riferisce a quanto sta avvenendo nel Nord-est del Mozambico, precisamente nella provincia di Cabo Delgado, dove è in corso un conflitto che vede contrapporsi un gruppo jihadista che i locali chiamano Machababos, da al-Shabaab (in somalo “la gioventù”), e le milizie nazionali e private – a cominciare dalla sudafricana Dyck Advisory Group – assoldate dal governo mozambicano per far fronte all’insorgere dell’estremismo islamico. 

Il Mozambico assurge raramente agli “onori” della cronaca, fatta eccezione per le catastrofi naturali che l’hanno colpito negli ultimi anni, primi fra tutti, nel 2019, i cicloni Idai e Kenneth. Il secondo, in particolare, si è abbattuto a fine aprile proprio nella provincia di Cabo Delgado. 

Il 24 marzo, racconta Antonio Tiua in un articolo apparso sul giornale mozambicano “O Pais”, Palma era una città “praticamente deserta”. L’ultimo attacco documentato di al-Shabaab, durato dieci giorni, ha avuto come epicentro proprio questa cittadina del Nord-est del Mozambico, e ha costretto molti dei suoi abitanti a rifugiarsi a Pemba, capoluogo della provincia di Cabo Delgado. Palma, come hanno confermato le forze di difesa governative, è stata poi abbandonata dai jihadisti. Questa incursione, però, è solamente l’ultimo episodio di un conflitto che si protrae dall’ottobre del 2017, quando al-Shabaab condusse per la prima volta un attacco a Mocimboa da Praia. 

È un caso che le rivendicazioni del gruppo jihadista locale, che non ha niente a che vedere con la formazione somala al-Shabaab, si concentrino in una provincia che l’organizzazione non governativa francese Les amis de la Terre ha definito l’eldorado gazier, cioè “l’eldorado del gas”? Il Mozambico è un Paese ricco di materie prime con un’economia che è cresciuta nello scorso decennio a ritmi elevatissimi. Eppure, nel 2019 l’indice di sviluppo umano (HDI in inglese), che aggrega gli indicatori su aspettativa di vita, istruzione e reddito pro capite, non superava lo 0,456, lasciando il Paese al 181° posto di una classifica che comprende i 193 Paesi membri delle Nazioni Unite. 

Uno scenario complesso: i fattori in gioco

Le circostanze descritte fino ad ora potrebbero portare a una lettura semplificata del contesto, che però non corrisponde alla realtà: il conflitto ha molteplici cause, e non può essere ricondotto alla sola presenza di importanti giacimenti di gas naturale e di altre risorse naturali a Cabo Delgado. Le cause della guerra in atto a Cabo Delgado non sono direttamente riconducibili all’estrazione di gas naturale, cui partecipano la Francia, con Total,  l’Italia, con Eni, e  gli Stati Uniti con Exxon Mobil. Ciò non vuol dire che la “questione delle risorse” non vi rientri. Ne parliamo con Corrado Diamantini, professore dell’Università di Trento e membro della cattedra Unesco in Ingegneria per lo sviluppo umano e sostenibile della stessa Università. Il professore, che è stato a più riprese in Mozambico, collabora con il Consorzio Associazioni con il Mozambico, che ha sede a Trento e a Beira (provincia di Sofala Mozambico), e conosce bene i luoghi in cui sono in corso gli scontri. 

Diamantini suggerisce di staccarci per un attimo da ciò che sta avvenendo a Cabo Delgado e di guardare alla terra, la risorsa più preziosa per un Paese che vive di agricoltura, che in Mozambico è oggetto di accaparramento da parte di molti investitori esteri (land grabbing) con il concorso dello stesso governo. Un riferimento tra i tanti è costituito dal progetto ProSavana, frutto di un accordo stipulato nel 2010 tra Maputo, Tokyo e Brasilia, che permetterà a imprese giapponesi e brasiliane di sostituire la produzione familiare tipica dell’agricoltura mozambicana con monocolture intensive di soia. Con un “piccolo” inconveniente: gran parte della popolazione che abita quelle terre sarà costretta ad andarsene. In questo caso, però, come spiega Diamantini “la risposta non è violenta, ma consiste nella mobilitazione popolare e nell’azione delle organizzazioni contadine”. “Quindi – prosegue il professore – non si può stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto tra sfruttamento delle risorse, tra cui quelle presenti a Cabo Delgado, e il conflitto in atto, altrimenti saremmo in presenza di una guerra generalizzata in tutto il Mozambico, a partire dalla provincia di Gaza, a sud, dove i cinesi estraggono terre rare pesanti, fino a Moatize, a ovest, dove i brasiliani estraggono carbone”.

Il conflitto di Cabo Delgado, che ha provocato sinora più di 2.500 morti e 700 mila sfollati, va ricondotto, secondo il professore, a tre fattori che agiscono in modo sinergico. 

Il radicalismo islamico fa breccia lungo la costa mozambicana

Alessandro Vivaldi, in un articolo apparso su “Africa Rivista”, parla d’insurgency (“insurrezione”), più che di terrorismo, per definire quanto sta avvenendo nel Nord del Mozambico. Il primo attacco di al-Shabaab è avvenuto il 5 ottobre 2017, quando un gruppo di trenta uomini ha preso d’assalto la cittadina di Mocimboa da Praia, non lontana dal confine con la Tanzania. In realtà, la radicalizzazione del gruppo di giovani musulmani è avvenuta anni prima. 

Il primo fattore del conflitto in atto a Cabo Delgado, come ci spiega Diamantini, è proprio “la radicalizzazione di un gruppo di giovani musulmani appartenenti a una minoranza della popolazione di Cabo Delgado, i Mwani”. “I Mwani vivono lungo la costa e nelle isole, praticano la pesca e il commercio risalendo l’Oceano Indiano con piccole imbarcazioni tradizionali, i dau”, prosegue Diamantini. “Parlano, oltre a kimwani, il kiswahili, ossia la lingua franca della costa orientale africana. Sono musulmani: da bambini frequentano più le madrasse che le scuole statali. Questo per dire che si tratta di una popolazione che è da sempre in contatto con altri Paesi, come la Tanzania e il Kenya. Se poi si tiene presente il traffico illegale di avorio, di rubini e di eroina, che, come è noto, proviene dall’Afghanistan, raggiunge l’Iran e da lì arriva a Cabo Delgado per poi proseguire per Durban e l’Europa, si ha l’idea di una regione piuttosto permeabile.

Da qui la facilità con cui hanno fatto il loro ingresso le idee fondamentaliste di cui si ha notizia ancora prima della scoperta delle risorse a Cabo Delgado. La fondazione di una setta, a cui partecipano tra l’altro anche figure provenienti dalla Tanzania e da altri Paesi africani, risale al 2007. Solo negli anni successivi questa setta, dopo l’addestramento locale e l’indottrinamento religioso all’estero di alcuni aderenti, si trasforma in un gruppo armato, facendo successivamente proseliti anche in altre zone del nord e del centro del Paese”. 

Gli obiettivi militari di al-Shabaab, all’avvio delle operazioni, si trovano proprio lungo la costa, “in centri che sono abitati perlopiù da Mwani, come Mocimboa da Praia, Monjane e Mucojo”, spiega Diamantini. “Al-Shabaab si muove come se in questi assalti avesse avuto degli scopi premeditati: in primo luogo l’eliminazione di leader civili e religiosi. Infatti vengono uccisi religiosi musulmani e viene bruciato il Corano, perché si vuole mettere in discussione il modo con cui si pratica la religione, in nome dell’interpretazione autentica del Corano: non per nulla viene riportato che l’invocazione più frequente durante gli assalti è proprio ‘Sunnah’, ossia il codice di comportamento religioso. Solo successivamente compaiono il richiamo alla Jihad e alla creazione di uno stato autonomo”. 

C’è quindi un primo elemento che ha poco a che vedere con le risorse e con l’eldorado teatro degli scontri tra il gruppo di al-Shabaab e le milizie assoldate dal governo mozambicano: “è la scelta di giovani che anche altrove hanno abbracciato l’estremismo, indipendentemente dalle proprie condizioni economiche e da quelle della popolazione in mezzo alla quale vivono”, afferma Diamantini. “Quando penso alla versione mozambicana di al-Shabaab, quello che mi viene in mente è Boko Haram in Nigeria”. Anche Eric Morier-Genoud, ricercatore della Queen’s University di Belfast che studia la storia dell’Africa lusofona, ha usato questo paragone per descrivere il movimento estremista mozambicano. 

Se è vero che le risorse presenti a Cabo Delgado non sono la causa scatenante del conflitto in corso, è necessario ricordare che la questione delle risorse non scompare ma, anzi, riemerge con forza. “Al-Shabaab non acquista certo credito tra la popolazione provocando centinaia di migliaia di sfollati e morti indiscriminate”, dice il professore. “Quindi com’è che questo gruppo trova il consenso e si alimenta? E qui veniamo alla questione delle risorse, il secondo fattore in gioco”. 

Le risorse tra epoca coloniale e ricostruzione post-guerra civile

“Uno dei primi gruppi a raggiungere al-Shabaab, ancora prima dell’assalto a Mocimboa da Praia del 2017, è quello formato da alcuni garimpeiros, i cercatori che estraggono abusivamente i rubini”, spiega Diamantini. “I garimpeiros erano stati attaccati da milizie private assoldate dalla Montepuez Ruby Mining, che ha in concessione la miniera di Cabo Delgado. Come è documentato, in seguito all’attacco i cercatori di rubini entrano nelle fila di al-Shabaab, nome con cui vengono chiamati i Machambabos”. 

Molte delle risorse che giacciono in Mozambico sono state scoperte solo in anni recenti. Alcune, però, erano conosciute già durante il periodo coloniale: il carbone delle miniere di Moatize e l’acqua dei fiumi che attraversano il Paese, tra cui lo Zambesi. Ma non vengono sfruttate. “Fino al 1942, il Portogallo delega la gestione di gran parte della colonia a compagnie concessionarie private, soprattutto a capitale inglese”, racconta il professore. “In cambio di cosa? Delle imposte pagate dalle compagnie, le quali a loro volta si rifanno con gli interessi sulla popolazione africana. In pratica, il Portogallo cede la propria sovranità sulla colonia e ne ha in vantaggio proventi sicuri, oltre al fatto di non dover investire capitali. È esattamente quello che fa oggi il governo mozambicano quando, ad esempio, dà in concessione le miniere di carbone alla Vale, uno dei più grandi gruppi minerari del mondo, oppure i giacimenti di gas alle compagnie petrolifere. Gli investitori dispongono a tutti gli effetti delle risorse, il governo mozambicano, senza fare alcun investimento, ha in cambio i proventi dell’atto di concessione. Ma il problema non è tanto questo, quanto l’uso che viene fatto di questi proventi oltre che la delega delle scelte di sviluppo a investitori privati”. 

Il governo portoghese, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, si limita a realizzare il collegamento ferroviario tra il giacimento minerario di Moatize e la linea ferroviaria che congiungeva Beira con il Nyassaland (oggi Malawi) e, assieme al Sudafrica, la diga di Cahora Bassa. 

Lo sfruttamento delle risorse ha inizio anni più tardi, dopo l’indipendenza, con alcuni antefatti. “Nel 1984 il governo mozambicano si accorda con il Fondo Monetario Internazionale e con la Banca Mondiale per una ‘liberalizzazione’ dell’economia”, racconta Diamantini. “Teniamo presente che il Frelimo, il partito al governo, aveva optato per il marxismo-leninismo, e quindi per un’economia controllata dallo Stato. Questo accordo prelude al cambiamento che avviene nel 1989, quando il Frelimo rinuncia esplicitamente all’opzione marxista-leninista”. Un’altra tappa che apre allo sfruttamento delle risorse è l’ingresso del Mozambico nella Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe nel 1999, “ovviamente – come ci spiega Diamantini – in funzione della riabilitazione delle infrastrutture di trasporto che erano andate distrutte durante la guerra”. Infrastrutture che da un lato garantiscono al Sud Africa l’accesso al porto di Maputo e dall’altro permettono di avviare lo sfruttamento delle miniere di carbone. 

La scoperta dei rubini a Montepuez, del gas a Palma e della grafite a Ancuabe, tutte località situate nella provincia di Cabo Delgado, è successiva. “Non sono molto convinto, però, che questi giovani estremisti avessero consapevolezza di tutte queste cose”, aggiunge il professore. “Certamente sapevano dell’espulsione dalla terra nei giacimenti di Montepuez e avevano sotto gli occhi i cambiamenti che stavano investendo Palma e il sottostante promontorio di Afungi dove a un certo punto la Total avvia i lavori per la realizzazione della Cidade do gas”.

“Ma una cosa è evidente – continua il professore – se teniamo presenti da un lato la povertà della popolazione, le disuguaglianze sociali e la corruzione dilagante, e dall’altro l’arricchimento di pochi e la creazione di strutture moderne ed efficienti destinate però ad attività in cui la popolazione locale non trova spazio, non possiamo sorprenderci del senso di esclusione e del risentimento contro il governo, così come del fatto che questo stato di cose diventi una leva per il reclutamento, da parte di al-Shabaab, di giovani ai quali, come ha affermato il vescovo di Pemba, è negato il futuro”. 

Ed è proprio contro il partito di governo, il Frelimo, che al-Shabaab lancia di continuo le proprie invettive. 

“Maledizione delle risorse” in Mozambico

Lo sfruttamento delle risorse da parte di terzi non riguarda solo ed esclusivamente Cabo Delgado, ma abbraccia purtroppo tutto il Mozambico. A quello delle risorse naturali e della terra si aggiunge anche lo sfruttamento intensivo delle foreste, il cui legname è destinato in gran parte alla Cina. 

“La domanda che, giunti a questo punto, ci dobbiamo porre è: a favore di chi interviene lo sfruttamento delle risorse?”, si chiede Diamantini. “Innanzitutto a favore delle stesse compagnie concessionarie, poi a favore delle élite che governano il Paese. I proventi, soprattutto in tasse, dell’estrazione dei minerali, della produzione elettrica, del land grabbing e della stessa produzione industriale – si pensi alla Mozal, il grande impianto di alluminio che opera vicino alla capitale – rimangono in larga parte a Maputo, dove alimentano oltre alle élite la crescita di un ceto medio che non è presente in altre città. Non vengono di certo impiegati per attivare politiche credibili di sviluppo per l’insieme del Paese”. 

Qui entra in gioco un concetto che gli economisti chiamano resource curse (“maledizione delle risorse”). “La maledizione delle risorse fa riferimento proprio a questo stato di cose – chiarisce il professore – che possiamo riassumere così: se la presenza di grandi risorse e di un enorme potenziale di ricchezza torna a vantaggio di pochi e non riesce a tradursi in politiche di sviluppo rivolte all’insieme della popolazione – soprattutto a causa della corruzione e del malgoverno – si ingenerano disuguaglianze tali da produrre una perenne situazione di instabilità che alimenta i conflitti”. 

Come appalta le risorse, il governo mozambicano “ha appaltato” anche la gestione del conflitto

Nell’affrontare il conflitto, il governo mozambicano sta replicando lo stesso schema che utilizza per gestire le risorse. Oltre alle forze governative, la FADM (Forze Armate del Mozambico) e la UIR (Unità di Intervento Rapido), per combattere contro al-Shabaab e per difendere i siti dove vengono estratte le risorse il governo mozambicano ha assoldato alcune compagnie militari private, prima fra tutte la Dick Advisory Group, fondata dal colonnello sudafricano Lyonel Dick. La sola risposta militare, per di più affidata a truppe speciali se non a mercenari, è secondo il professore il terzo fattore che agisce nel conflitto di Cabo Delgado.

Entrambe le parti – forze governative e chi per loro da un lato e gruppo estremista dall’altro – violano il diritto internazionale umanitario, il quale sancisce che in un conflitto armato i civili non possono mai essere oggetto d’attacco. “All’inizio del conflitto le truppe governative  hanno colpito indiscriminatamente tutti coloro che si professano musulmani, perché accomunati ad al-Shabaab”, spiega Diamantini. “Questo nonostante la presa di distanza delle autorità religiose musulmane. Ciò ha spinto altri giovani a unirsi ad al-Shabaab. Quanto ai mercenari che combattono per conto del governo, è provato che mentre utilizzavano gli elicotteri in attacchi contro i jihadisti hanno sparato sulla popolazione civile con cui questi ultimi si erano mescolati. Dall’altra parte ci sono i crimini che commettono di continuo i jihadisti, in cui ritroviamo il campionario cui ci hanno abituato in questi anni le cronache,  comprese le decapitazioni e il rapimento delle donne e di giovani adolescenti. Insomma, una spirale infernale”. Uccisioni e violenze indiscriminate che concorrono all’esasperazione di un conflitto la cui soluzione è affidata, al momento, esclusivamente alle armi. 

Conclusione

Riepiloghiamo quindi le tre concause del conflitto mozambicano indicate dal professor Diamantini. 

La prima è la radicalizzazione di alcuni giovani musulmani che hanno formato un gruppo jihadista che i locali chiamano Machababos, dal somalo al-Shabaab (“la gioventù”). Si tratta soprattutto di Mwani, una popolazione di Cabo Delgado dedita al commercio costiero e quindi in contatto da sempre con il mondo musulmano. Questa radicalizzazione è intervenuta con la presenza, a Cabo Delgado, di estremisti islamici provenienti soprattutto dalla Tanzania. Viene riportato che tuttora nella leadership di al-Shabaab sono presenti tanzaniani e altri stranieri. Non ha trovato però riscontro l’affiliazione di al-Shabaab allo Stato Islamico, anche se appare evidente che la prosecuzione del conflitto potrebbe spingere a questo connubio.

La seconda, invece, è il modo con cui il governo mozambicano gestisce – o meglio, non gestisce – le risorse, appaltando a grandi investitori stranieri il loro utilizzo. Il governo mozambicano, in tutto ciò, accumula le tasse pagate dai concessionari. Questi proventi vengono ripartiti privilegiando pochi gruppi sociali. Questo mantiene il Paese e in particolare le province di Niassa, Nampula e Cabo Delgado in uno stato di povertà in cui soprattutto i giovani non ravvedono un futuro, diventando preda della propaganda jihadista.

La terza e ultima causa è la violenza con cui viene gestito il conflitto di Cabo Delgado, che non risparmia neppure la popolazione. Una violenza che, come avviene con la gestione delle risorse, viene anche appaltata. Alle due fazioni in campo, al-Shabaab e le milizie governative, si aggiungono infatti i mercenari pagati dal governo mozambicano e dalle compagnie private assoldate per difendere i giacimenti di minerali e per debellare l’estremismo islamico. La violenza indiscriminata, che si iscrive in una risposta esclusivamente militare ai jihadisti, finisce con l’esacerbare la popolazione spingendo alcuni, fosse solo in cambio di cibo, vestiario e soldi, a schierarsi con il campo jihadista.  

Per concludere, affrontiamo una questione legata al land grabbing  che però riguarda da vicino il tema delle risorse. “C’è un’obiezione ricorrente, a fronte delle critiche all’accaparramento della terra, ed è: Vogliamo continuare ad alimentare l’agricoltura familiare quando questa non ci porta fuori dalla povertà?”, spiega Diamantini. “Quindi perché non sostituire l’agricoltura familiare con un’agricoltura intensiva, che produce più reddito?”. 

Ricordiamo che l’aumento del Prodotto interno lordo non garantisce da solo la sostenibilità economica, la quale a sua volta non può essere disgiunta da quella sociale e ambientale. Il PIL in tal senso è un pessimo indicatore: servono anche politiche credibili di sviluppo e di redistribuzione delle risorse. “Se tutto si svolgesse altrove e in un’altra epoca, l’obiezione alla quale ho fatto riferimento potrebbe avere un fondamento. In fondo è quello che è accaduto in Europa e in altre parti del mondo. Ma in tanti Paesi africani, oggi, l’espulsione dalla terra non è compensata da un posto di lavoro in fabbrica, come accadeva in Inghilterra durante la rivoluzione industriale. Non è compensata da nulla, tanto meno da politiche pubbliche che consentano l’ingresso in altri settori dell’economia. Non è compensata neppure da altra terra, visto che nei casi che abbiamo sotto gli occhi ai contadini viene riassegnata terra non fertile”, conclude Corrado Diamantini. “Alle politiche pubbliche è strettamente legata anche la questione delle risorse. Per i rubini, il gas e tutte le altre risorse presenti in Mozambico, si coinvolga pure una grande impresa nel loro sfruttamento, visto che sa come farlo e ha i capitali per farlo. Ma senza farne un soggetto extraterritoriale che compie a piacimento scelte, legate allo sviluppo, che coinvolgono poi i luoghi di vita, le infrastrutture e l’ambiente. E poi si vincoli la concessione alla realizzazione di progetti rivolti a migliorare sostanzialmente le condizioni di vita delle popolazioni locali oltre che all’esborso di oneri fiscali commisurati ai guadagni. Per costruire finalmente, con questi proventi, le basi per lo sviluppo di un Paese che, mentre combatteva il colonialismo, sognava di conquistare  dignità e  benessere”.

Bibliografia

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Sandro Pintus, Giacimenti di gas nel nord del Mozambico sono una bomba ecologica a tempo, Africa ExPress, 24 giugno 2020

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